Dicono i neurofisiologi che l’adolescente ha un’esplosione di collegamenti sinaptici, poi nella maturità questi si ridurranno alla metà: vengono scartati quelli meno frequentati e meno utili. E in questo modo il cervello diventa sempre meno aperto a nuove idee e nuove strade.
La ricerca di Ventura cerca di ridar vita a quelle possibilità che abbiamo perso con la selezione dell’età adulta. Fa intravedere nuovi mondi oltre quello che vediamo quotidianamente, che ci siamo ridotti a vedere quotidianamente.

C’è un’interpretazione della teoria dei quanti dovuta ad Everett che, pur nel suo estremismo, è presa seriamente da molti fisici: quella dei molti mondi. Il dilemma centrale dei quanti è che se una particella può essere in due stati, possiamo sapere in quale solo misurando, violando il suo stato di incertezza.
Everett ipotizza che ad ogni scelta entrambe le possibilità si avverino, e che di conseguenza si formino due mondi paralleli. Così all’infinito. Ed è questa infinità che la rende dubbia e indigesta.
Ma se andiamo avanti e cerchiamo di capire cosa succede a questi mondi paralleli non è detto che assistiamo ad una continua divergenza, ma possiamo pensare ad una evoluzione soggetta alle pressioni selettive dell’ambiente e di tutte le scelte circostanti: molte delle divergenze verranno probabilmente annullate, altre resteranno ma quasi indistinguibili. La molteplicità non necessariamente si moltiplicherà.

Questo scenario è certamente più interessante di quello classico, e soprattutto si apre a un confronto con la realtà che ci sembra di vedere tutti i giorni, imprevista ma immutabile.

Le fotografie di Ventura possono essere viste come un’allusione a questo scenario: giardini dove si intravedono fate sfuggenti, personaggi presenti ma mal definiti o con più dimensioni di quelle che appaiono, paesi e paesaggi che sanno di non essere immutabili. Ci fanno sentire il peso dei mondi che avrebbero potuto essere e insieme ci liberano per un poco dalle catene del mondo che ci sembra essere.

Paolo Di Marco, estratto dall’articolo ‘Fulvio Ventura, Sagacity e il Multiverso’, Poliscritture, 3 novembre 2021

Fulvio Ventura è stato un maestro in ombra della fotografia italiana. Compagno d’avventura dei più famosi Ghirri, Guidi e Basilico, ha partecipato, con i migliori di quella generazione, ai due progetti di culto Viaggio in Italia (1984) e Archivio dello spazio (1987-1667). Ventura, morto l’anno scorso a 79 anni, era uomo coltissimo e profondo, di una sensibilità che si esprimeva con fotografie di grande qualità e fascino, ma anche con quello che molti definiscono ‘’un pessimo carattere’’. Una sorta di misantropia che ha contribuito alla sua poco generosa fortuna critica ed editoriale. Sembra impossibile che solo oggi, a quasi cinquant’anni di distanza, veda la luce Sagacity, un libro concepito nel 1975, su cui l’artista è tornato per tutta la vita.

A ben guardare, quella mandata in libreria dalla casa editrice californiana The Ice Plant è la prima monografia di Ventura in assoluto. La grafica è del fotografo newyorchese di grido Jason Fulford. L’editing è di Giulia Zorzi, curatrice e fondatrice della libreria e galleria milanese Micamera, tra i pochi spazi in Italia davvero attenti alla fotografia contemporanea internazionale.

Ma l’importanza di Sagacity non sta solo nella curiosa vicenda editoriale. Si tratta di un libro seminale, paragonabile per importanza a Kodachrome o Milano. Ritratti di fabbriche per i percorsi di Ghirri e Basilico. Contiene, in nuce, le direttive per leggere tutta l’opera di Ventura, utili per fugare l’equivoco che dagli anni Ottanta in poi lo ha ridotto a ‘’fotografo dei giardini’’.

Luca Fiore, giornalista, dall’articolo ‘’Sagacity, il libro-chiave di Fulvio Ventura’’, Il Foglio, 13 ottobre 2021

Oh, guarda!
E null’altro da proferire.
Iminox, collectionisti di fotografie

Fulvio … cercava di essere morbido con noi, raggiungeva la tenerezza.
Poi evidentemente qualcosa lo bloccava nel concedersi.
Non direi spigoloso … ma Fulvio Ventura era unico.
Concedeva e poi ritirava le concessioni date.
Andrea Abati, fondatore della Galleria Dryphoto, Prato

 

Fulvio Ventura:
La fotografia, quando è ben riuscita, può soltanto rendere bello ciò che mostra. Una didascalia, cioè un discorso verbale aggiunto, può tentare di far cambiare la valenza etica e/o estetica. Non parlo qui della fotografia in generale, in tutte le sue modalità possibili, dalla foto segnaletica alla pornografia, passando per l’album di nozze e le macroscopie entomologiche, ma di quel genere di fotografia che trova la sua collocazione finale in certi musei o nei cartoni acid-free dei collezionisti privati.

Quando ero bambino speravo di vedere le fate. Avevo chiesto a mia madre se le fate esistono, e lei mi rispose ”Esistono per chi ci crede”. Pensai: se mi sforzo di vedere una fata, uno spiritello, uno gnomo, e credo che esistano, e anzi sono sicuro che ne possano esistere lì, per me, allora ne vedrò uno. Mi sforzavo di crederci fermamente: sapevo che era questa la magia per riuscire a vederli. Pensavo che si potessero scorgere con più facilità nell’ombra di una siepe, al crepuscolo, oppure altre volte su una riva di un torrente, sul mezzogiorno di un giorno d’estate.

Pian piano, crescendo, non volli abbandonare del tutto questa illusione e tuttora non accetto di esserne del tutto deluso, e anche se non vedo nulla di vivo, nel percorrere le campagne mi imbatto in macchie e in siepi particolari che, ne sono certo, nascondono apparizioni.

E’ a questo che volevo giungere. Non avevo mai ritrovato sensazioni analoghe in fotografie o immagini. Questa è la prima volta. Le fotografie di Fulvio Ventura colgono ciò che ho sempre cercato: gli angoli della natura in cui, se si guarda bene, qualcosa è sul punto di manifestarsi.

Giovanni Jervis, psichiatra

Investigatore delle forme del paesaggio secondo un gusto et un metodo quasi animista, creatore d’immagini che, per ricerca formale e tecnica, dialogano con i grafici d’antica tradizione, Fulvio Ventura rivolge da parecchi anni la sua attenzione predominante alla natura e ai giardini. Non mancano, nel suo lavoro, altri temi, dal paesaggio antropizzato alla figura umana: tuttavia, il mondo vegetale sembra occupare, nella sua opera, un significativo posto centrale.

Con una lentezza raffinata Ventura costruisce degli scenari vegetali fatti di pieni e di vuoti, di segni, di tracciati, incroci, perscorsi visivi, quasi metafore della complessità del mondo confidate agli alberi, ai cespugli, alle erbe, ai cieli, alle brume, ai sentieri, alle rocce, alle acque.

In questo lavoro d’osservazione continua, spesso basata sull’insistenza, sullo studio del ‘motivo’, per utilizzare un temine di Cézanne, sulla verificazione ossessiva delle forme, delle luci, delle ombre, Ventura s’è servito a lungo et con maestria del bianco e nero, metodo molto interessante per disegnare attraverso la fotografia (il bianco e nero in fotografia non disegna soltanto il soggetto, ma disegna, potremmo dire, se stesso), e in questi ultimi anni è arrivato al colore, utilizzato in ogni caso non tanto per definire il campo, ma di nuovo per registrare dei segni.

In virtù di questa ricerca continua di segni, d’indizi, di tracce attraverso le quali provare a decifrare un enigma, la fotografia di Ventura si presenta come un denso insieme di corti e piccanti poemi: non una narrazione continua, ma la somma di più frammenti che, forse, riuniti tra loro, potranno indicare dei significati. La sua opera, benchè costruita attraverso delle fotografie (in apparenza le immagini più ‘reali’), resta dominata da un sentimento di mistero, di domanda dilatata. E’ un tipo di scrittura il cui alfabeto è difficile da individuare, che sicuramente ci parla non solo di luoghi, siano boschi, pianure o giardini, ma anche e forse soprattutto, in silenzio, di persone, d’apparizioni, di pensieri, di paure.

Roberta Valtorta, storica e critica della fotografia italiana

Non mi ha per nulla stupito quando l’autore di queste fotografie, Fulvio Ventura , mi ha raccontato che molti, nello scorrerle e osservarle, sono rimasti sgomenti. Non tanto per le fotografie stesse, ma per via del tema, ricorrente, del bosco. Un bosco dove l’uomo non c’è, se non negli spazi in cui ne ha interrotto la continuità.

Prima del genocidio del paganesimo, il bosco ha generato e protetto per il nostro mondo, prima greco poi latino, anche gli dei, le ninfe e i satiri, come ha continuato a generare per i popoli nordici, anche dopo la caduta del paganesimo, Oberon e Titania, i Nibelunghi, i maghi e le fate che hanno trovato il loro spazio nella poesia.

Mentre l’autore mi faceva scorrere davanti agli occhi le sue fotografie, mi è accaduto di soffermarmi su una figura, un volto disegnato dalla roccia, il modo come la vegetazione si dispone. Dal disegno, dai chiaroscuri che la corteccia disegna su un tronco, è il gioco delle luci e delle ombre che traduce in un linguaggio a noi percepibile le forme umanizzate degli dei.

Coloro che guardano al bosco con diffidenza, come un fuori che in loro desta solo timori, non arriveranno mai a percepirne le forme segrete, le apparizioni, le epifanie, quelle stesse che hanno spinto l’autore di queste fotografie a cercarle e scovarle dentro il disegno delle luci e delle ombre.

Ippolito Pizzetti, pittore paesaggista e saggista

In questo libro Fulvio Ventura ci fa viaggiare all’interno del suo pensiero sognante. Fin qui, quasi tutti i libri di fotografia ci portavano a visitare una realtà ben delimitata: un paese, un certo tipo di persone, certi monumenti. La documentazione era il loro solo scopo confessato. Ma già il Paris de nuit, di Brassai (1932), il Paris des Rêves, d’Izis (1950), ci facevano condividere l’universo poetico del loro autore. E Henri Cartier-Bresson, all’inizio d’Images à la sauvette (1932), confessava la propria soggettività ricordando al lettore che ‘‘le immagini di questo libro non pretendono di dare un’idea generale dell’aspetto di tale o talaltro paese’’. Questa evoluzione ha trovato una realizzazione molto cosciente presso certi giovani fotografi. In Francia citerei Contretemps d’Arnaud Class (1978). Qui Fulvio Ventura porta questo processo fino alla sua più grande essenzialità.

Quella che ci racconta Fulvio Ventura è una storia di uno strano tipo. E’ fatta d’altrettanti buchi di mistero che di presenze enigmatiche. Come quelle dei suoi sogni, queste immagini sono uscite da Fulvio Ventura stesso eppure gli appaiono sconosciute, come venute da un altrove. Gli sono nello stesso tempo straordinariamente intime e straordinariamente estranee. La creazione fotografica ha il privilegio, tra tutti, di confrontare immediatamente il creatore alla propria opera come se fosse quella di un altro. Situazione allo stesso tempo difficile e feconda. Per Ventura queste immagini sono delle apparizioni provenienti da due orizzonti che gli sfuggono: quello della realtà oggettiva, altra, esterna a lui stesso, e quello del substrato incosciente del suo pensiero, non meno sconosciuto a lui stesso. Sono alla confluenza di questi due traboccamenti.

Ed è qui que la sua lucidità vigila, cogliendole al volo e cercando di metterle ‘’insieme in un certo ordine’’. Per questo Ventura raccoglie, tra tutte le sue riprese, quelle che resistono all’erosione dello sguardo. Restano là intoccate, d’una qualità allo stesso tempo indefinibile e irriducibile, come i frammenti sparsi d’un bel romanzo perduto. Comme i pezzi sparsi di un mondo che dovrebbe essere coerente altrove, in un assoluto inaccessibile. Ma un’infinità di pezzi mancheranno sempre et se ne è perso il filo.
Ventura, davanti a queste immagini, non è più avanti di ciascuno di noi. Sono il mistero di un mistero. E davanti a loro possiamo verificare la definizione basilare di Diane Arbus: ‘’Una fotografia è un segreto a proposito di un segreto’’.

Frammenti enigmatici di una storia ben strana, Ventura li ha scelti tra molti perchè gli erano prondamente intimi e che lo riguardavano da vicino. E, benchè incontrati per caso, gli aderivano come gli oggetti familiari ‘’che si attaccano alla nostra anima’’.
Il salto che ha osato è quello di decidere che potevano toccare anche gli altri. Vuole comunicarci un’emozione molto segreta, scommettendo che sarà, e che è già, anche la nostra emozione. E questo senza che alcun commento tradisca la solitudine prima ed essenziale di ciascuna fotografia.

E il mistero stesso qui diventa il motore più profondo del nostro percorso. Non siamo mai nel posto dove si arriva, ma sempre nel posto per il quale si passa, verso un altro posto incerto. Come Dante, nel primo canto dell’Inferno, dovette perdersi in una selva oscura prima di trovare il proprio cammino, cosi’ noi dovremo passare sotto lo sguardo spaventoso delle chimere e delle bestie araldiche che vegliano alle porte del regno dell’aldilà. Attraversiamo passaggi stretti e irti di frecce, serre irrespirabili piene di cactus allucinogeni. E queste insidie s’alternano con grandi aperture di spazi, con parchi deserti in fondo ai quali brilla la finestra di una casa solitaria.
Personaggi rari e sfuggenti, appena intravisti, che sarebbero portatori di un segno, di un messaggio. Li seguiamo sulle banchine di un fiume e nei corridoi della metro. Ci trascinano in una caccia al tesoro senza punti d’arrivo e che forse è tutta un’illusione. Qui l’indizio e il caso si confondono per fare impazzire l’investigatore.

A volte qualcuno ci si drizza davanti. E’ il genio malvagio, improvvisamente materializzato, che guida questa sarabanda?  Ma vediamo soltanto un signore nascosto dagli occhiali scuri, il sorriso canzonatore d’una ragazzina, lo stupore di un grosso bebé, presto scomparsi. E questo inseguimento accelera, attraverso pianure battute dalla pioggia, finchè le immagini si dissolvono nell’ombra del crepuscolo…
Cosi’ abbiamo navigato, divagato e derivato da una foto all’altra, e le abbiamo collegate una per una, senza mai rompere il loro mutismo né inquinare la loro solitudine.

Jean-Claude Lemagny, storico della fotografia, direttore del dipartimento di fotografia alla Biblioteca Nazionale di Francia, 1978

Il paesaggio – urbano e naturale – è stato un tema cardine nel lavoro fotografico di Ventura. A partire dai primi anni ’70 la sua ricerca lo ha portato ad approfondirne lo studio, documentando quei processi che trasformano il territorio e l’ambiente sociale, urbano, architettonico del Bel Paese, in un perenne terreno di scontro. La crescente consapevolezza dei temi ambientali si è integrata in Ventura con una sempre più matura sensibilità estetica, che l’ha condotto all’affermazione di una coscienza artistica originale.
Per molti anni, attraverso la fotografia, Ventura ha lavorato anche per far emergere le responsabilità culturali e politiche di certe inquietanti trasformazioni del territorio, dove alle criticità legate a specifiche condizioni geografiche, si affianca il problema della conservazione di un paesaggio storico e artistico unico. Una lotta che deve coincidere oggi con la difesa dalla cementificazione e dall’invasione del turismo.
Su queste premesse Ventura ha sviluppato il lavoro per il Museo delle Arti del XXI° secolo, il MAXXI. Un’inchiesta tesa non tanto ad illustrare il paesaggio italiano quanto a coglierne i punti critici, i vuoti diffusi nell’insondabile bellezza.

Francesca Fabiani, responsabile Fotografia Contemporanea, ICCD, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, 2007

Fulvio Ventura, video-intervista sul suo lavoro su Venezia, in occasione della mostra Rischio paesaggio, 2007

Tra i vari temi proposti ho voluto affrontare quello del consumo turistico, che è stato intelligentemente messo tra i rischi per il paesaggio. Ho scelto Venezia perché era una sorta di crescendo iperbolico di interesse ed entusiasmo. Quanto sia a rischio non c’è bisogno di dirlo, e il rischio maggiore è che sia svuotata dai veneziani. Poi mi piaceva la sfida, si sono viste così tante immagini di Venezia che mi è sembrato un guanto gettato affinché facessi ancora qualcosa, un approccio diverso. Non che io creda che la fotografia possa avere un ruolo nell’indurre maggiore consapevolezza. Di fronte al corso ineluttabile degli eventi non vedo quale ostacolo possa porre, quale coscienza possa svegliare. La bellezza deve essere più nella testa di chi guarda, la fotografia non crea coscienza, ciascuno ritrova quello che ha già dentro (…) Però ogni tanto bisognerebbe fermarsi, fermare il sistema di filtri e guardarsi attorno con uno sguardo un po’ vergine.

Raramente mi capita, guardando un quadro o una foto, di provare una vertigine pungente.
Come se mi si moltiplicassero gli occhi.
Come se quello che vedo solo si muovesse e il resto, tutto il resto intorno, fosse antico e fermo.
Continua il mio vagare dentro la foto di Fulvio, magnolia che sembra spogliarsi come una sposa che depone i suoi veli ma ancora le restano impigliati, orgogliosi e solitari.

Libera Martinetti, creatrice di gioielli

E’ uno sguardo fuggitivo quello che coglie e fissa l’attimo di un paesaggio nordico, uno sguardo poetico e melanconico che invita alla contemplazione.
Nuvole e luce suggeriscono un movimento in contrasto con la geometria ferma delle costruzioni, in primo piano la razionalita’ dell’uomo con le sue solide case, il sentiero tracciato, sullo sfondo il paesaggio naturale nella sua mutevolezza, la luce, l’arcobaleno.
E’ uno sguardo sensibile quello che riesce a cogliere la tensione degli opposti e rappresentare nella fissita’ dell’immagine l’eternita’ del cambiamento.
Paola Del Punta

Fulvio Ventura, conferenza-proiezione alla Facolta d’Architettura del Politecnico di Milano, 1994

Ladies & Gentlemen,
Ho accettato con piacere l’invito del professor Nava a tenere qui una lettura con proiezione, direi in primo luogo per ragioni egoistiche. Infatti per circa vent’anni, fedele al motto ‘panettiere fai il tuo mestiere’, ho sempre rifiutato di fornire commenti o spiegazioni sul lavoro che stavo facendo, convinto che esista un pensiero visivo, diverso e complementare al pensiero verbale e non riducibile a questo, per lo meno nella misura in cui nessuno si sogna di fare un frullato di un buon piatto di spaghetti a meno che chi debba ingoiarlo non sia del tutto impedito nella masticazione: a quel punto, però, non credo che gliene freghi più niente degli spaghetti frullati e la logica dei suoi pasti sarebbe tutt’altra dalla nostra. Per intendersi, ritenevo che descrivere verbalmente e rappresentare visivamente fossero due operazioni complementari come mangiare e bere. Non so quanta parte abbia anche avuto la pigrizia in questa mia scelta: i risultati non si sono fatti attendere e sono stati tragici. A farla breve, cioè, il risultato meno sgradevole è stato quello di essere frainteso. Ora mi rendo conto che voi siete in tempo di esami e se siete venuti qui è stato anche nella speranza di guadagnarci qualcosa, e avete ragione. Ecco perciò qualcosa di utile, un consiglio per la vostra futura carriera di laureati: non lasciate che su di voi si incollino etichette professionali equivoche o limitative.

Per tornare al mio caso, se il soggetto del mio lavoro fotografico autonomo sul paesaggio riguardava quanto potesse ancora sussistere di una natura non dico vergine ma quel tanto di non avvilita dall’intervento antropico da far sì che la si potesse vedere, e rappresentare fotograficamente come luogo di ‘’apparizioni’’ tra virgolette, bene, in breve tempo mi sono trovato incollata addosso l’etichetta di fotografo di giardini. Non che questo non abbia anche avuto i suoi risvolti positivi: l’essere chiamato per lavori sui giardini mi ha anche aiutato nella sopravvivenza. Da parte mia, però, il discorso era alquanto più vasto e complesso.

Mi spiego: uno dei padri fondatori della fotografia, Alfred Stieglitz, negli anni venti ha fatto diverse fotografie di nuvole e le ha intitolate Equivalenti, ma non mi risulta che si sia dato la pena di spiegare diffusamente in termini verbali a che cosa quelle immagini equivalessero. Forse anche perchè si era già fatto una certa fama come ritrattista, nessuno si sognò di etchettarlo come meteorologo.

Ora il titolo Equivalenti si può applicare senza danno a gran parte della fotografia che ha saputo unire sapienza formale, una tecnica adeguata e qualità visionaria. Non so se qualcuno di voi era qui anche l’anno scorso ed ha assistito alla proiezione-conferenza di Gabriele Basilico. Non credo che Basilico avrebbe da ridire se qualcuno definisse le sue immagini come equivalenti piuttosto che vederle come una sorta di tavole illustrative architetto-urbanistico-sociologiche.

Cercherò quindi di chiarire qualcosa dell’equivalenza, nel caso specifico delle mie fotografie, a partire dal titolo esotico e un po’ pretenzioso e dal sottotitolo che rende la storia più modesta e ragionevole. Lon, Sien, Jen: in cinese, Draghi, Immortali e uomini.

Le fotografie sono state fatte in due zone geografiche: il sud della Francia, cioè Drôme, Vaucluse, Var et Haute Provence, e in Italia, sulla sponda piemontese del Lago Maggiore, in particolare sul territorio di quella che è stata la repubblica partigiana dell’Ossola. Che c’entrano i draghi cinesi? Ecco, se io mi affaccio dalla finestra del mio studio, quello che vedo di fronte a me, al di là dello specchio d’acqua del lago, è un esemplare impeccabile di drago, anche se privo di una zampa: e dell’amputazione sospetto assai un intervento umano. Per quelli di voi che avessero una qualche dimestichezza con la dottrina cinese del Feng Shui è tutto forse abbastanza chiaro. Per chi non ne sapesse nulla, per ragioni di tempo mi limiterò a dare due citazioni e una piccola indicazione bibliografica. Ma per evitare subito altri malintesi come quello del Ventura-botanico, tengo a precisare: non sono un esperto di Feng Shui, sarò anzi lieto, se qualcuno ne sa di più, di restare in futuro in contatto con lui.

Tuttavia, prima di parlare ancora di Feng Shui, ritengo opportuno leggervi un breve scritto di Ceronetti, contenuto nella raccolta di articoli e saggi intitolata La carta è stanca e datato anni ’70, a parer mio ancora validissimo anche se altrettanto non posso dire del Ceronetti più recente.

Ecco dunque il Ceronetti anni ’70:
Un albero senza Dei, senza fate, senza significati trascendenti, è già un albero morto. Contro la passione distruttiva dell’uomo dissacrato non ha difesa.
Se c’è, in un cortile, un cedro del Libano più vecchio delle Piramidi che impaccia la sosta delle vetture di undici avvocati, nove commercianti, tre dentisti, un fotografo, un pediatra, lo si taglia subito. Ma se al cedro del Libano è legata la credenza che, tagliandolo, tutto il casamento crolla, perchè morrebbe con l’albero il genio protettore del luogo, un rispettoso terrore impedirà il taglio.
L’uomo sottratto al sacro può fare soltanto quello che sta facendo; non chiedetegli di rispettare quel che non gli si presenta come una realtà oscura e imprevidibile. L’opinione di Haudricourt e Hédin che tutte le piante attualmente coltivate sono state in origine sacre, e solo per questo sono sopravvissute, è da ritenere. Al culmine della secolarizzazione, c’è soltanto la distruzione.
E la ragione può così poco, nei fatti umani, che la distruzione degli alberi procede anche se la ragione, uscita dal suo sonno, si è messa a gridare che bisogna impedirla. Il razionalismo ecologico sostiene che bisogna salvare il
verde (ma che cos’è il verde?) perchè altrimenti l’aria diventa irrespirabile, e il suo stupore è grande, vedendo che un consiglio per sopravvivere non ha nessun effetto. La sopravvivenza non interessa concretamente l’anima umana; la risposta del cuore è glaciale. Quel che cerchiamo non è la sopravvivenza della specie (che cos’è la specie?), è un senso alla vita.
Gli alberi non sono il
verde, sono ‘i nostri grandi fratelli immobili’, una gente pelosa, umida e cornuta la cui caratteristica, inconcepibile per l’uomo, è una bontà infinita. Non possono vivere senza devozione disinteressata: gli abbiamo fatto solo paura. E l’ecologia fallirà perchè il suo orizzonte mentale non è diverso, in profondo, da quello del distruttore.

Spieghiamoci: non è che Ceronetti voglia scrivere un manifesto per fondare una nuova ecologia su basi mitologiche o religiose. E nemmeno che io voglia esserne l’illustratore. Dipende da quanto spazio e tempo si voglia dare alla razionalità in noi stessi. Se in voi prevale l’atteggiamento razionale, nulla impedisce che possiate considerare la scrittura di Ceronetti una splendida metafora. Se invece non vi dispiace un atteggiamento più frikketton-zuzzurellone, nulla impedisce che nel primo week-end di bel tempo vi rechiate in qualche boschetto non troppo frequentato da gitanti e boy-scouts, mettiate al vostro io andante un bel paio di parentesi husserliane e come un insettone mistico estraiate finalmente le vostre antenne, esploriate un po’ la situazione e abbiate a good time.
Ma l’amico razionalista non demorde: metafora di che? mi chiederà. E’ vero, è questione di gusti e il razionalista è anche lui ‘un degno cittadino’, come diceva l’Antonio shakespeariano.

Il tempo stringe e vediamo di farla un po’ breve. A monte di tutto ci sono due atteggiamenti fondamentali nei confronti del cosmo: o il mondo è κόσμος, cosmos, cioè bello come dice l’etimologia greca, è cosa buona, come è scritto nella Genesi, o è qualcosa di simile a una palla di sterco, come vuole tutto un filone di cosmofobi, molto più numerosi di quanto non si creda nel pensiero occidentale, e non solo in quello. Io personalmente ho fin da piccolo optato per la prima ipotesi e quindi solo di questa posso parlare. E nelle menti della famiglia dei cosmofili, a dirla marxianamente, si aggira volentieri uno spettro. E’ l’idea dell’Anima mundi o, se vogliamo, di un cosmo vivente e animato (un’anima che può facilmente dividersi in una pluralità di anime). Questa visione de mondo non è poi così lontana da noi: credo fosse ben radicata in quella stessa Grecia classica che ha generato gli inizi della scienza occidentale (vedi Inni Omerici).

Purtroppo mi tocca andare un po’ di corsa sia per il tempo a disposizione che per la vostra attenzione già abbastanza provata. Anzi, non solo di corsa ma di salto. E qui posso tornare con un salto al Feng Shui: per chi non lo sapesse, che cos’è? In brevissima è una interpretazione del cosmo in termini di Ch’i.

Il Ch’i è l’energia attiva che scorre attraverso le forme. In quanto tale è responsabile dei mutamenti di forma caratteristici di tutti gli esseri viventi, compresa la Terra.
Il Ch’i opera a tutti i livelli. A livello umano è l’energia che scorre nei meridiani di agopuntura del corpo. A livello agricolo è la forza che, se non è stagnante, produce raccolti fertili. A livello climatico è l’energia trasportata dai venti e dalle acque.

In Tao Magic (1975, p. 13), Laszlo Legeza spiega il Ch’i in questo modo :
Il Ch’i , lo Spirito Vitale, permea il mondo del taoista. E’ lo Spirito Cosmico che vitalizza e infonde di sé ogni cosa, dando energia all’uomo, vita alla natura, movimento all’acqua, crescita alle piante. E’ esalato dalle montagne, dove vivono gli spiriti, sotto forma di nuvole e nebbie, e per questo il movimento ondulato delle nuvole, della nebbia e dell’aria impregnata del fumo che sale dall’incenso che brucia è una rapprestazione tipica del Ch’i nell’arte cinese.

Da notare il rilievo dato alle nuvole e alla nebbia, feng e shui, che formano i draghi nell’aria. Il drago designa una linea-percorso di Ch’i, come anche la tigre, che è il suo comprimario. Ora nulla impedisce che voi diate spiegazioni analoghe in termini di elettromagnetismo. Sembra davvero, in base a reperti della scienza occidentale, che la Terra sia percorsa da mutevoli meridiani elettromagnetici. Ma parlare di draghi, come rispose un computer (ma chi l’aveva programmato?) a un amico geologo: ‘è più bello’. E in questo modo, soprattutto, si apre la via a quell’atteggiamento nei confronti del mondo così ben descritto da Walter Friedrich Otto ne Gli Dei della Grecia:
Nel mondo dei greci, il divino non domina l’avvenimento naturale quale potenza sovrana: si rivela nelle forme del naturale medesimo, quale sua essenza e suo essere. Se per gli altri accadono i miracoli, nello spirito greco si svolge il più grande dei miracoli per il fatto che gli è dato di vedere gli oggetti nella esperienza viva, in modo tale che essi mostrano I venerabili contorni del divino, senza nulla perdere della loro realtà naturale.

Vogliamo diventare frenetici come un video-clip? E allora dalla Grecia torniamo in Cina e facciamo comparire gli Immortali: tradizione cinese, taoista. Otto sono i più famosi, ma sembra che ce ne siano molti altri. Per chi voglia saperne di più rimando al bel libro di Kristopher Schipper, il Corpo taoista. Basti qui dire che sembra siano di natura gioiosa e che si spostano a piacere nell’etere, tendono a mantenarsi a debita distanza dagli uomini ma, invitati, partecipano volentieri alle feste e ai banchetti, anche se invisibili o sotto apparenze strane. Ma che c’entrano con quanto detto prima? Ecco una bella domanda. E comunque vi leggo cosa scriveva Shitao, pittore e teorico cinese del 18° secolo, nel suo discorso sulla pittura, cap. 11 paragrafo 6, intitolato La vertigine:
Con questo procedimento si vuole esprimere un universo inaccessibile all’uomo, senza strade per arrivarci, come sono le montagne del Bohai, Penglai e Fanghu: qui solo gli Immortali possono abitare, ma l’uomo comune non può immaginarlo; è la vertigine, come esiste nell’universo naturale; per esprimerla in pittura si devono rappresentare cime scoscese, precipizi, ponti sospesi, abissi straordinari.

E con questa nostalgia del passato noi guardiamo nel mondo esterno, lo sguardo diventa un sentire etico, la modalità possibile per indagare e raccontare dei luoghi che sembrano aver perso ogni riconoscibilità, negandoci ogni possibilità di lettura, quasi fossero stati toccati da una malefica magia fantascientifica che li ha stravolti.

Tra i fili aggrovigliati del sempre identico, della ripetizione indifferente nello spazio informe, regno dell’analogo e della quantità, la fotografia può, attraverso frammenti e intuizioni, piccoli mutamenti della luce, l’evidenza di un colore, il particolare di una facciata, le linee di un volto, uno spazio inatteso, trasformare per noi tutto questo in piccole certezze, in piccoli mondi da unire fra loro per tracciare un percorso possibile come fossero i sassi di Pollicino, per vedere di nuovo una immagine leggibile.

Penso che a questo punto si possa cominciare la proiezione o, se si vuole, la lanterna magica.

Anna de Lorenzi, Daniele e Christel Bortolan, Bruno Bortolan e Julie Armando, Lorenzo Camocardi, Giulia Zorzi, Beatrice Hepp, Aurora Bortolan, Kati Haschert, che hanno collaborato all’edizione di questo sito, chiudono questa piccola rassegna di citazioni con una riflessione di Walter Benjamin, particolarmente apprezzata da Fulvio Ventura, tratta dalla raccolta Strada a senso unico:

Quando muore una persona che ci era molto vicina, c’è nei cambiamenti dei mesi successivi qualcosa che, per quanto avremmo desiderato condividerla con lo scomparso, ci sembra abbia potuto dispiegarsi solo grazie alla sua lontananza. Lo salutiamo, alla fine, in una lingua che lui già non comprende più.