Fulvio Ventura, conferenza-proiezione alla Facolta d’Architettura del Politecnico di Milano, 1994
Ladies & Gentlemen,
Ho accettato con piacere l’invito del professor Nava a tenere qui una lettura con proiezione, direi in primo luogo per ragioni egoistiche. Infatti per circa vent’anni, fedele al motto ‘panettiere fai il tuo mestiere’, ho sempre rifiutato di fornire commenti o spiegazioni sul lavoro che stavo facendo, convinto che esista un pensiero visivo, diverso e complementare al pensiero verbale e non riducibile a questo, per lo meno nella misura in cui nessuno si sogna di fare un frullato di un buon piatto di spaghetti a meno che chi debba ingoiarlo non sia del tutto impedito nella masticazione: a quel punto, però, non credo che gliene freghi più niente degli spaghetti frullati e la logica dei suoi pasti sarebbe tutt’altra dalla nostra. Per intendersi, ritenevo che descrivere verbalmente e rappresentare visivamente fossero due operazioni complementari come mangiare e bere. Non so quanta parte abbia anche avuto la pigrizia in questa mia scelta: i risultati non si sono fatti attendere e sono stati tragici. A farla breve, cioè, il risultato meno sgradevole è stato quello di essere frainteso. Ora mi rendo conto che voi siete in tempo di esami e se siete venuti qui è stato anche nella speranza di guadagnarci qualcosa, e avete ragione. Ecco perciò qualcosa di utile, un consiglio per la vostra futura carriera di laureati: non lasciate che su di voi si incollino etichette professionali equivoche o limitative.
Per tornare al mio caso, se il soggetto del mio lavoro fotografico autonomo sul paesaggio riguardava quanto potesse ancora sussistere di una natura non dico vergine ma quel tanto di non avvilita dall’intervento antropico da far sì che la si potesse vedere, e rappresentare fotograficamente come luogo di ‘’apparizioni’’ tra virgolette, bene, in breve tempo mi sono trovato incollata addosso l’etichetta di fotografo di giardini. Non che questo non abbia anche avuto i suoi risvolti positivi: l’essere chiamato per lavori sui giardini mi ha anche aiutato nella sopravvivenza. Da parte mia, però, il discorso era alquanto più vasto e complesso.
Mi spiego: uno dei padri fondatori della fotografia, Alfred Stieglitz, negli anni venti ha fatto diverse fotografie di nuvole e le ha intitolate Equivalenti, ma non mi risulta che si sia dato la pena di spiegare diffusamente in termini verbali a che cosa quelle immagini equivalessero. Forse anche perchè si era già fatto una certa fama come ritrattista, nessuno si sognò di etchettarlo come meteorologo.
Ora il titolo Equivalenti si può applicare senza danno a gran parte della fotografia che ha saputo unire sapienza formale, una tecnica adeguata e qualità visionaria. Non so se qualcuno di voi era qui anche l’anno scorso ed ha assistito alla proiezione-conferenza di Gabriele Basilico. Non credo che Basilico avrebbe da ridire se qualcuno definisse le sue immagini come equivalenti piuttosto che vederle come una sorta di tavole illustrative architetto-urbanistico-sociologiche.
Cercherò quindi di chiarire qualcosa dell’equivalenza, nel caso specifico delle mie fotografie, a partire dal titolo esotico e un po’ pretenzioso e dal sottotitolo che rende la storia più modesta e ragionevole. Lon, Sien, Jen: in cinese, Draghi, Immortali e uomini.
Le fotografie sono state fatte in due zone geografiche: il sud della Francia, cioè Drôme, Vaucluse, Var et Haute Provence, e in Italia, sulla sponda piemontese del Lago Maggiore, in particolare sul territorio di quella che è stata la repubblica partigiana dell’Ossola. Che c’entrano i draghi cinesi? Ecco, se io mi affaccio dalla finestra del mio studio, quello che vedo di fronte a me, al di là dello specchio d’acqua del lago, è un esemplare impeccabile di drago, anche se privo di una zampa: e dell’amputazione sospetto assai un intervento umano. Per quelli di voi che avessero una qualche dimestichezza con la dottrina cinese del Feng Shui è tutto forse abbastanza chiaro. Per chi non ne sapesse nulla, per ragioni di tempo mi limiterò a dare due citazioni e una piccola indicazione bibliografica. Ma per evitare subito altri malintesi come quello del Ventura-botanico, tengo a precisare: non sono un esperto di Feng Shui, sarò anzi lieto, se qualcuno ne sa di più, di restare in futuro in contatto con lui.
Tuttavia, prima di parlare ancora di Feng Shui, ritengo opportuno leggervi un breve scritto di Ceronetti, contenuto nella raccolta di articoli e saggi intitolata La carta è stanca e datato anni ’70, a parer mio ancora validissimo anche se altrettanto non posso dire del Ceronetti più recente.
Ecco dunque il Ceronetti anni ’70:
Un albero senza Dei, senza fate, senza significati trascendenti, è già un albero morto. Contro la passione distruttiva dell’uomo dissacrato non ha difesa.
Se c’è, in un cortile, un cedro del Libano più vecchio delle Piramidi che impaccia la sosta delle vetture di undici avvocati, nove commercianti, tre dentisti, un fotografo, un pediatra, lo si taglia subito. Ma se al cedro del Libano è legata la credenza che, tagliandolo, tutto il casamento crolla, perchè morrebbe con l’albero il genio protettore del luogo, un rispettoso terrore impedirà il taglio.
L’uomo sottratto al sacro può fare soltanto quello che sta facendo; non chiedetegli di rispettare quel che non gli si presenta come una realtà oscura e imprevidibile. L’opinione di Haudricourt e Hédin che tutte le piante attualmente coltivate sono state in origine sacre, e solo per questo sono sopravvissute, è da ritenere. Al culmine della secolarizzazione, c’è soltanto la distruzione.
E la ragione può così poco, nei fatti umani, che la distruzione degli alberi procede anche se la ragione, uscita dal suo sonno, si è messa a gridare che bisogna impedirla. Il razionalismo ecologico sostiene che bisogna salvare il verde (ma che cos’è il verde?) perchè altrimenti l’aria diventa irrespirabile, e il suo stupore è grande, vedendo che un consiglio per sopravvivere non ha nessun effetto. La sopravvivenza non interessa concretamente l’anima umana; la risposta del cuore è glaciale. Quel che cerchiamo non è la sopravvivenza della specie (che cos’è la specie?), è un senso alla vita.
Gli alberi non sono il verde, sono ‘i nostri grandi fratelli immobili’, una gente pelosa, umida e cornuta la cui caratteristica, inconcepibile per l’uomo, è una bontà infinita. Non possono vivere senza devozione disinteressata: gli abbiamo fatto solo paura. E l’ecologia fallirà perchè il suo orizzonte mentale non è diverso, in profondo, da quello del distruttore.
Spieghiamoci: non è che Ceronetti voglia scrivere un manifesto per fondare una nuova ecologia su basi mitologiche o religiose. E nemmeno che io voglia esserne l’illustratore. Dipende da quanto spazio e tempo si voglia dare alla razionalità in noi stessi. Se in voi prevale l’atteggiamento razionale, nulla impedisce che possiate considerare la scrittura di Ceronetti una splendida metafora. Se invece non vi dispiace un atteggiamento più frikketton-zuzzurellone, nulla impedisce che nel primo week-end di bel tempo vi rechiate in qualche boschetto non troppo frequentato da gitanti e boy-scouts, mettiate al vostro io andante un bel paio di parentesi husserliane e come un insettone mistico estraiate finalmente le vostre antenne, esploriate un po’ la situazione e abbiate a good time.
Ma l’amico razionalista non demorde: metafora di che? mi chiederà. E’ vero, è questione di gusti e il razionalista è anche lui ‘un degno cittadino’, come diceva l’Antonio shakespeariano.
Il tempo stringe e vediamo di farla un po’ breve. A monte di tutto ci sono due atteggiamenti fondamentali nei confronti del cosmo: o il mondo è κόσμος, cosmos, cioè bello come dice l’etimologia greca, è cosa buona, come è scritto nella Genesi, o è qualcosa di simile a una palla di sterco, come vuole tutto un filone di cosmofobi, molto più numerosi di quanto non si creda nel pensiero occidentale, e non solo in quello. Io personalmente ho fin da piccolo optato per la prima ipotesi e quindi solo di questa posso parlare. E nelle menti della famiglia dei cosmofili, a dirla marxianamente, si aggira volentieri uno spettro. E’ l’idea dell’Anima mundi o, se vogliamo, di un cosmo vivente e animato (un’anima che può facilmente dividersi in una pluralità di anime). Questa visione de mondo non è poi così lontana da noi: credo fosse ben radicata in quella stessa Grecia classica che ha generato gli inizi della scienza occidentale (vedi Inni Omerici).
Purtroppo mi tocca andare un po’ di corsa sia per il tempo a disposizione che per la vostra attenzione già abbastanza provata. Anzi, non solo di corsa ma di salto. E qui posso tornare con un salto al Feng Shui: per chi non lo sapesse, che cos’è? In brevissima è una interpretazione del cosmo in termini di Ch’i.
Il Ch’i è l’energia attiva che scorre attraverso le forme. In quanto tale è responsabile dei mutamenti di forma caratteristici di tutti gli esseri viventi, compresa la Terra.
Il Ch’i opera a tutti i livelli. A livello umano è l’energia che scorre nei meridiani di agopuntura del corpo. A livello agricolo è la forza che, se non è stagnante, produce raccolti fertili. A livello climatico è l’energia trasportata dai venti e dalle acque.
In Tao Magic (1975, p. 13), Laszlo Legeza spiega il Ch’i in questo modo :
Il Ch’i , lo Spirito Vitale, permea il mondo del taoista. E’ lo Spirito Cosmico che vitalizza e infonde di sé ogni cosa, dando energia all’uomo, vita alla natura, movimento all’acqua, crescita alle piante. E’ esalato dalle montagne, dove vivono gli spiriti, sotto forma di nuvole e nebbie, e per questo il movimento ondulato delle nuvole, della nebbia e dell’aria impregnata del fumo che sale dall’incenso che brucia è una rapprestazione tipica del Ch’i nell’arte cinese.
Da notare il rilievo dato alle nuvole e alla nebbia, feng e shui, che formano i draghi nell’aria. Il drago designa una linea-percorso di Ch’i, come anche la tigre, che è il suo comprimario. Ora nulla impedisce che voi diate spiegazioni analoghe in termini di elettromagnetismo. Sembra davvero, in base a reperti della scienza occidentale, che la Terra sia percorsa da mutevoli meridiani elettromagnetici. Ma parlare di draghi, come rispose un computer (ma chi l’aveva programmato?) a un amico geologo: ‘è più bello’. E in questo modo, soprattutto, si apre la via a quell’atteggiamento nei confronti del mondo così ben descritto da Walter Friedrich Otto ne Gli Dei della Grecia:
Nel mondo dei greci, il divino non domina l’avvenimento naturale quale potenza sovrana: si rivela nelle forme del naturale medesimo, quale sua essenza e suo essere. Se per gli altri accadono i miracoli, nello spirito greco si svolge il più grande dei miracoli per il fatto che gli è dato di vedere gli oggetti nella esperienza viva, in modo tale che essi mostrano I venerabili contorni del divino, senza nulla perdere della loro realtà naturale.
Vogliamo diventare frenetici come un video-clip? E allora dalla Grecia torniamo in Cina e facciamo comparire gli Immortali: tradizione cinese, taoista. Otto sono i più famosi, ma sembra che ce ne siano molti altri. Per chi voglia saperne di più rimando al bel libro di Kristopher Schipper, il Corpo taoista. Basti qui dire che sembra siano di natura gioiosa e che si spostano a piacere nell’etere, tendono a mantenarsi a debita distanza dagli uomini ma, invitati, partecipano volentieri alle feste e ai banchetti, anche se invisibili o sotto apparenze strane. Ma che c’entrano con quanto detto prima? Ecco una bella domanda. E comunque vi leggo cosa scriveva Shitao, pittore e teorico cinese del 18° secolo, nel suo discorso sulla pittura, cap. 11 paragrafo 6, intitolato La vertigine:
Con questo procedimento si vuole esprimere un universo inaccessibile all’uomo, senza strade per arrivarci, come sono le montagne del Bohai, Penglai e Fanghu: qui solo gli Immortali possono abitare, ma l’uomo comune non può immaginarlo; è la vertigine, come esiste nell’universo naturale; per esprimerla in pittura si devono rappresentare cime scoscese, precipizi, ponti sospesi, abissi straordinari.
E con questa nostalgia del passato noi guardiamo nel mondo esterno, lo sguardo diventa un sentire etico, la modalità possibile per indagare e raccontare dei luoghi che sembrano aver perso ogni riconoscibilità, negandoci ogni possibilità di lettura, quasi fossero stati toccati da una malefica magia fantascientifica che li ha stravolti.
Tra i fili aggrovigliati del sempre identico, della ripetizione indifferente nello spazio informe, regno dell’analogo e della quantità, la fotografia può, attraverso frammenti e intuizioni, piccoli mutamenti della luce, l’evidenza di un colore, il particolare di una facciata, le linee di un volto, uno spazio inatteso, trasformare per noi tutto questo in piccole certezze, in piccoli mondi da unire fra loro per tracciare un percorso possibile come fossero i sassi di Pollicino, per vedere di nuovo una immagine leggibile.
Penso che a questo punto si possa cominciare la proiezione o, se si vuole, la lanterna magica.